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Il trust per cedere beni agli eredi non è un patto successorio
IL Sole 24 Ore
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Anche per le perdite del 2021 effetti sterilizzati sul capitale sociale.
Anche per le perdite del 2021 effetti rinviati sul capitale sociale
Il passaggio generazionale nelle aziende familiari riguarda non solo i trasferimenti di quote e cariche, ma soprattutto un patrimonio di competenze aziendali. Non sempre strumenti complessi quali ad esempio i trust, possono rivelarsi adeguati.
Il passaggio generazionale, infatti, può essere attuato o agevolato anche attraverso operazioni straordinarie, modifiche statutarie e contenitori societari ad hoc. In questo senso, l’utilizzo di una holding di famiglia nella forma della società semplice può rappresentare una soluzione a cui è possibile ricorrere per l’intestazione di partecipazioni societarie, al fine di pianificare un loro ottimale futuro trasferimento, soprattutto nell’ambito di una stessa famiglia. La società semplice garantisce infatti,la minimizzazione dei costi, essendo essa caratterizzata dalla totale assenza di formalismi e dell'obbligo di predisporre i libri sociali ed il bilancio; neppure vi sono particolari vincoli per gli organi societari, essendo ogni socio amministratore in via disgiunta dagli altri (salvo prevedersi diversamente nell’atto costituivo).
Gli unici adempimenti previsti per le società semplici sono quelli fiscali, pur con delle notevoli semplificazioni. Per la Dre del Piemonte (interpello 901-171/2017), la società semplice, purché avente meramente ad oggetto la gestione di partecipazioni sociali, non è tenuta alla presentazione della dichiarazione dei redditi se nel corso del periodo d’imposta non ha percepito redditi, in quanto non le sono stati distribuiti dividendi e, quindi, redditi di capitale, e non ha ceduto partecipazioni e, quindi, generato eventuali redditi diversi.
In base agli articoli 6 e 13 del Dpr 600/73 le società semplici non rientrano tra i soggetti obbligati alla tenuta delle scritture contabili e alla presentazione del bilancio se esse non hanno ad oggetto la gestione di beni immobili che generano in capo alle stesse redditi di natura fondiaria.
In conclusione, questa ulteriore semplificazione fiscale, oltre agli aspetti legati alla flessibilità societaria e ad altri particolari vantaggi quali ad esempio l’inapplicabilità delle norme sulle società di comodo e la possibilità di applicare le stesse norme di rivalutazione previste per le partecipazioni detenute dalle persone fisiche, invita i contribuenti, nell’ambito delle riorganizzazioni aziendali votate al passaggio generazionale o al riassetto familiare, a valutare con attenzione la possibilità di collocare al vertice del gruppo una holding nella forma giuridica della società semplice.
DA IL SOLE 24 ORE - IL QUOTIDIANO DEL DIRITTO - articolo di Angelo D’Ugo e Davide Cagnoni 31 luglio 2017
Il rent to buy è quel contratto che permette di ottenere l’immediato godimento di un bene a fronte del pagamento di un canone per un certo periodo, con l’accordo che, una volta pagati per intero i canoni dovuti in detto periodo, il conduttore diviene proprietario del bene ottenuto in godimento. L’operazione è stata pensata, in particolare, per favorire l’acquisto della prima casa, ma nulla vieta che lo schema possa essere impiegato anche in contratti che abbiano a oggetto beni diversi dagli immobili.
MEDIAZIONE CIVILE E COMMERCIALE
Il rent to buy di azienda consentirebbe al potenziale acquirente, attraverso il collegamento tra due contratti (in genere, il contratto di affitto di azienda e il contratto preliminare di cessione di azienda), di far entrare subito nel godimento dei beni dell’azienda; inizialmente detti beni vengono condotti in affitto verso il pagamento di un canone periodico (fase “rent”); successivamente, il conduttore ne diviene proprietario (fase “buy”) a un termine prefissato, mediante il pagamento del prezzo convenuto, dal quale vengono scomputati, in tutto o in parte, i canoni pagati in precedenza.
Mediatore iscritto alla Camera di Mediazione Nazionale
Evidenti sono i vantaggi per chi intende comprare l’azienda:
si ottiene il godimento dei beni dell’azienda senza corrispondere fin da subito l’intero prezzo;
si ottiene più facilmente un finanziamento al momento dell’acquisto per il minor importo del prezzo ancora dovuto, in considerazione di quanto anticipato con i canoni.
Non mancano i vantaggi per chi vende:
si facilita l’alienazione dei beni che altrimenti potrebbero restare privi di acquirenti;
si consegue un immediato introito finanziario;
si alleggeriscono i costi di gestione, che possono essere addebitati al detentore.
L’operazione, dunque, presenta una serie di profili interessanti sia per le imprese sia per gli enti finanziatori: la creazione per l’acquirente di uno “storico creditizio”; l’accantonamento di parte di quanto versato per l’affitto d’azienda come acconto prezzo; la possibilità di accantonare ulteriore liquidità con il proprio lavoro per l’acquisto finale; la posticipazione di tutti i costi e le imposte; la possibilità di vendere la propria azienda cedendo i contratti. Il contratto ha normalmente una fase triennale di affitto. In genere è previsto il versamento di una caparra pari al 25-30% del valore totale dell’operazione; l’accantonamento ai fini della cessione del 70% del canone mensile pagato, e l’operazione viene costruita in modo che il cessionario dovrà versare all’atto della cessione il rimanente 50 per cento.
da Il Sole 24 Ore - Notaio Angelo Busani di Milano- 24 febbraio 2017
Ebbene, ancora la Corte di Cassazione si pronuncia (per la 26ma volta in un anno, da giugno 2019 a giugno 2020) con l'ordinanza 10256 del 29 maggio 2020, sulla tassazione del trust.
Che si tratti di un trust «traslativo» o di un trust «autodichiarato» e qualunque sia il suo scopo,
Il pegno non possessorio è un pegno concesso (senza spossessamento) con atto scritto e pubblicato nel "registro dei pegni non possessori" tenuto dall’Agenzia delle Entrate.
Ai fini della presentazione della domanda di concordato con riserva di cui alla legge fallimentare, articolo 161, comma 6 (che consente all'imprenditore di depositare un ricorso contenente la domanda di concordato unitamente ai bilanci relativi agli ultimi tre esercizi e all'elenco nominativo dei creditori con l'indicazione dei rispettivi crediti, riservandosi di presentare la proposta, il piano e la documentazione prevista dalla legge terzo entro un termine fissato dal giudice, compreso fra sessanta e centoventi giorni e prorogabile, in presenza di giustificati motivi, di non oltre sessanta giorni), è sufficiente che il ricorso sia sottoscritto dal difensore munito di procura, non occorrendo che sia personalmente sottoscritto anche dal debitore, attesa la scissione tra i due momenti, del deposito della domanda di concordato con riserva, e del deposito della proposta, oltre che del piano e della documentazione, nel termine fissato dal giudice.
Ne consegue che, se la domanda di concordato con riserva può essere sottoscritta anche dal solo difensore munito di procura rilasciata dal legale rappresentante della società, le formalità prescritte dalla legge fallimentare, articolo 152 (Proposta di concordato), devono essere rispettate solo al momento del successivo completamento della domanda con il deposito della proposta.
Per le Sezioni unite del 27 dicembre 2016 e del 13 gennaio 2017 l’esclusione della falcidia dell’IVA opera solo nel(lo speciale) concordato con transazione fiscale. Il concordato con transazione fiscale, nell’ambito del quale l’Iva è e resta infalcidiabile per espressa disposizione legislativa, è infatti una figura di concordato preventivo speciale, la cui disciplina rappresenta un’eccezione alla regola della tangibilità di crediti privilegiati, inclusi quelli fiscali. Eccezione che, in quanto tale, non può estendersi automaticamente oltre l’ambito di applicazione della disciplina speciale in cui è inclusa.
Tanto chiarito dalle Sezioni Unite, la giurisprudenza si è allora subito orientata nello stesso senso. L’Iva è falcidiabile anche nell’ambito della procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento prevista dalla legge 3/2012, nonostante l’articolo 7 di tale legge disponga letteralmente il contrario, quando la proposta presentata dal debitore preveda un trattamento comunque migliore rispetto a quello consentito dall’alternativa liquidazione. È l’innovativo principio stabilito dal Tribunale di Pistoia (giudice Raffaele D’Amora) con il provvedimento del 26 aprile, su una proposta formulata da un artigiano che prevedeva il pagamento dell’Iva solo nella misura del 6, 25%. Stesso principio per il provvedimento coevo del Tribunale di Milano, che ammette la falcidia dell'IVA nei concordati fallimentari.
Il trasferimento dell’immobile sospensivamente condizionato
Per le imprese, anche finanziamenti diversi dai tradizionali mutui o prestiti.
Con il D.L. 59/2016, la banca potrà erogare una somma di danaro, da rimborsare tramite rate mensili o di maggiore periodicità, col diritto di acquisire l’immobile di proprietà dell’impresa non appena essa sarà inadempiente. Se il mutuatario ritarderà nel pagamento l’immobile viene trasferito ipso facto alla banca, che lo vende direttamente, senza procedura esecutiva giudiziale, senza vendita forzata del Tribunale, con l’unica eccezione che l’immobile non può essere quello dell’abitazione principale dell’imprenditore, del suo coniuge, o dei suoi parenti affini entro il terzo grado. L'immobile oggetto di garanzia rimane di proprietà dell’imprenditore (o del terzo datore), ma ne viene previsto il passaggio di proprietà alla banca (o ad altro soggetto strumentale alla banca) nel caso in cui l’imprenditore mutuatario non rimborsi il finanziamento.
Il trasferimento sotto condizione sospensiva è trascritto nei Registri immobiliari, cosicchè si impedisce a qualunque altro soggetto di imprimere sul bene in questione altre formalità pregiudizievoli per la banca mutuante (ad esempio, questa trascrizione rende infruttuosa la trascrizione successiva di un pignoramento o di una domanda giudiziale e l’iscrizione di ipoteche), in quanto, se la condizione di inadempimento si verifichi, il passaggio di proprietà del bene oggetto di garanzia si intenderà avvenuto nel momento stesso in cui il patto di garanzia venne originariamente trascritto, e ciò per effetto del tipico meccanismo retroattivo connesso alla verificazione della condizione sospensiva.
Inadempimento
Con il decreto di attuazione della Direttiva 17/2014, in caso di ammortamento a rate mensili, tre è il numero delle rate non pagate che costituisce inadempimento (e il passaggio di proprietà dell’immobile). L'inadempimento si produce con tre rate, anche non consecutive, non pagate per un periodo di sei mesi dalla scadenza. In caso di ammortamento con rate di durata superiore a quella mensile l’inadempimento si avrà anche in caso di mancato pagamento di una sola rata (con ritardo protrattosi per sei mesi). In caso di restituzione non rateale, cioè con obbligo di restituzione in un’unica soluzione a una data scadenza, sarà sufficiente il ritardo di sei mesi rispetto a quella data. Verificatosi l’inadempimento la banca notifica al debitore la dichiarazione di volersi avvalere della clausola sospensiva e acquisisce ipso facto l’immobile. Se il valore dell’immobile è superiore al debito, secondo la perizia, la banca pagherà al debitore la differenza tra l’importo del debito e il valore peritato. Circostanza questa, nella pratica, che si verificherà raramente, attesa la tendenza a perizie al ribasso per poter reimmettere efficacemente e rapidamente il bene nel mercato con la vendita diretta tramite la consociata immobiliare della banca stessa.
Anche mutui in corso
Il D.L. 59/2016 non riguarderà solamente i mutui e i prestiti che verranno stipulati d’ora innanzi, ma anche quelli in corso, purché la nuova modalità di garanzia venga esplicitamente pattuita mediante un atto notarile. La banca “concede” al mutuatario di aderire “volontariamente” a questa nuova formula, pattuendola anche successivamente. Attenzione, quindi nel valutare se davvero convenga, in cambio di un ritardo nell’azione esecutiva o di nuove agevolazioni, la “trasformazione” dell’ordinaria iscrizione ipotecaria, in un trasferimento dell’immobile “sospensivamente condizionato”.
Si ringrazia il notaio Massimo d’Ambrosio
IMPRENDITORI: nei casi meno gravi piani di risanamento chiusi extra giudizio
Vincere le fisiologiche resistenze dell’imprenditore persino a riconoscere i sintomi di una malattia già conclamata, incentivandolo a favorire una tempestiva emersione della crisi attraverso meccanismi agili perché svincolati dalle farraginosità tipiche delle procedure concordatarie tradizionali, ma al contempo in grado di assicurare la necessaria protezione dalle iniziative dei singoli creditori.
Lo schema di legge delega sembra prefigurare per gli accordi di ristrutturazione l’epilogo ideale del processo di composizione della crisi, avviato con la procedura di allerta.
Un percorso che possa svilupparsi in un contesto “non giudiziale”, enfatizzando la riservatezza, l’approccio adeguato e rapido e infine la dimensione negoziale della soluzione, assistita da misure di protezione, significa offrire uno strumento efficace e premiale all’imprenditore virtuoso che dimostri la lucidità di riconoscere per tempo le avvisaglie del problema e abbia l’onestà di attivarsi per risolverlo. Il tutto con l’assistenza degli interlocutori tipici dell’azienda: gli organi di controllo, gli advisor, i creditori qualificati.
L’assetto futuro della procedura di risanamento inizierebbe dall’attivazione dell’allerta, che in ambito stragiudiziale e riservato consentirebbe all’Organismo di composizione della crisi ed al gestore incaricato di assistere il debitore nella progettazione del piano di risanamento e di negoziare le migliori condizioni di soddisfacimento prospettabili con i creditori, le cui iniziative individuali sarebbero in ogni caso precluse.
In questo ambito, gli accordi di ristrutturazione dovrebbero diventare lo strumento naturale di fruttuosa composizione della crisi, consentendo all’imprenditore di affrancarsi dalle coercizioni delle minoranze, attraverso la modifica della soglia minima di aderenti e l’estensione degli effetti dell’articolo 182-septies della Legge fallimentare all’intera platea dei creditori, e limitando l’intervento del Tribunale alla gestione delle opposizioni ed alla successiva omologa. Nei casi di minor gravità, l’allerta potrebbe approdare ad un piano attestato di risanamento, completamente svincolato dal controllo giudiziario.
Viene quindi a delinearsi un quadro di tutele che, senza soluzione di continuità, sia in grado di accompagnare l’imprenditore dalla diagnosi della crisi fino all’omologazione degli accordi di ristrutturazione. Il tutto potrebbe avvenire preservando il patrimonio aziendale.
Perché, in definitiva, non sfugge la necessità di ricorrere a un presidio istituzionale qualificato. Ma l’auspicio è che questo presidio possa operare come un medico discreto e flessibile, capace di individuare la cura meno invasiva, al cui cospetto l’imprenditore responsabile senta di conservare la propria essenza.
Il tentativo di ristrutturazione delle posizioni debitorie dell’impresa in crisi si scontra spesso con la estrema complessità delle negoziazioni da instaurare tra il debitore e le banche e gli intermediari finanziari in generale, quali le società di leasing e di factoring, eccetera: è assai difficile, infatti, conciliare, in tempi brevi, le rispettive posizioni quando il quadro dei rapporti in campo è frammentato e complicato da una pluralità di fattori, quali la numerosità dei creditori e degli istituti di credito coinvolti, l’entità e la tipologia della esposizione di ciascuno di essi, la loro differente propensione al rischio, la solidità delle garanzie di cui le varie banche siano dotate, la qualità e la durata del rapporto creditizio tra ciascuna banca e l’imprenditore in crisi, e così via.
Il legislatore, per accelerare i tempi della negoziazione e facilitare il raggiungimento di un consenso vincolante per l’intero ceto bancario, ha allora integrato la disciplina “generale” dell’istituto degli accordi di ristrutturazione del debito (disciplinata dall’articolo 182-bis della legge fallimentare) ogniqualvolta l’esposizione dell’imprenditore verso banche e intermediari finanziari sia almeno pari al 50% del suo indebitamento complessivo.
Per effetto della miniriforma 2015 (Dl 83/2015), il debitore che intenda percorrere la via dell’accordo di ristrutturazione può superare l’eventuale dissenso di uno (o più) creditori finanziari. Gli effetti dell’accordo di ristrutturazione del debito (nuovo articolo 182-septies, comma 2 legge fallimentare) si estendono al creditore bancario non aderente: le banche non aderenti possono essere “forzate” a entrare nell'accordo, e così a concedere dilazioni di pagamento dei debiti esistenti, rimodulazioni dei piani di rimborso, stralci di parte dei loro crediti. Non possono invece essere imposte la concessione di nuovi affidamenti, l’erogazione di nuovi finanziamenti o la concessione al debitore di continuare a utilizzare le linee di credito esistenti.
Il tutto è possibile se, in presenza degli altri presupposti, risulta con chiarezza che il ricorso e la documentazione dell’accordo sono stati notificati al debitore finanziario ed questi ha comunicato di non volersi opporre alla richiesta di estensione degli effetti. Così il Tribunale di Parma (decreto 7/2016 del 27 aprile).
Due sono le tipologie di condizioni necessarie; alcune a carattere sostanziale ed altre a carattere processuale.
Le condizioni sostanziali sono:
l’indebitamento complessivo per oltre il 50% nei confronti di banche ed intermediari finanziari in generale, quali le società di leasing e di factoring, eccetera;
un accordo accettato da un’ampia maggioranza (almeno il 75%) dei crediti delle banche che hanno una posizione giuridica ed interessi economici omogenei a quelli delle banche dissenzienti;
le banche non aderenti devono essere soddisfatte dall’accordo almeno nella stessa misura in cui sarebbero soddisfatte nelle «alternative concretamente praticabili» (concordato preventivo o fallimento).
Le condizioni processuali sono:
che i creditori (bancari) non aderenti siano stati informati dell’avvio delle trattative e messe in condizione di parteciparvi (notifica del ricorso al tribunale);
che essi abbiano comunque ricevuto complete e aggiornate informazioni sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria del debitore, sui termini dell’accordo e sui suoi effetti;
che le trattative si svolgano in buona fede.
Ma nella versione che emerge dallo schema di legge delega per la riforma della disciplina della crisi d’impresa e dell’insolvenza, approvato dal Consiglio dei ministri a febbraio 2016, emergono sostanziali novità. Vediamole.
Negli accordi di ristrutturazione non liquidatori il meccanismo secondo cui l’adesione all'accordo del 75% dei creditori possa obbligare anche il restante 25% operi non più solo per gli intermediari finanziari (come accade oggi, dopo che il Dl 83/2015 ha introdotto l’articolo 182-septies della Legge fallimentare), ma anche per gli altri creditori. Si estende quindi la deroga all’obbligo di pagamento pressoché subitaneo dei creditori dissenzienti, per evitare comportamenti strumentali da parte di chi, poco esposto, tenti di avvantaggiarsi in danno di chi invece ha molto più da perdere.
Prevista anche la riduzione, sino all’eliminazione, della soglia minima del 60% nell’adesione all’accordo (articolo 182-bis, comma 1), a due condizioni: l’accordo non deve prevedere la moratoria dei pagamenti per i creditori dissenzienti; il debitore non deve chiedere di accedere anticipatamente allo stand still protettivo, che consente, prima del deposito dell’accordo per l’omologa (e quindi nel corso delle trattative) di ottenere il divieto di prosecuzione e avvio di azioni esecutive o cautelari individuali e di rendere inefficace l’acquisizione di ogni titolo di prelazione dopo l’iscrizione dell’istanza nel Registro imprese.
La delega incide anche sulla struttura delle misure protettive: oggi l’operatività dello stand still nell’accordo di ristrutturazione è limitata a 60 giorni. Pochi, posto che i creditori hanno 30 giorni dall’iscrizione per proporre opposizione e che l’omologa può intervenire solo dopo che il Tribunale abbia deciso. Se i tempi per gestire opposizione ed emissione del decreto di omologa richiedessero più dei residui 30 giorni, il debitore si troverebbe esposto nella fase finale di formalizzazione dell’accordo alla prosecuzione delle azioni individuali e soprattutto alla trascrizione di nuovi gravami, stavolta efficaci ed opponibili. Inoltre, il rinvio dell’articolo 182-bis, comma 3, al solo secondo comma dell’articolo 168 rende opponibili le ipoteche giudiziali iscritte anche poco prima dell’iscrizione ed inefficaci solo quelle successive, non operando la retroattività di 90 giorni prevista nel concordato preventivo. Ciò rende le trattative per definire l’accordo, in assenza di istanza di sospensione, esposte al pericolo di interventi imprevisti o strumentali, capaci di compromettere il percorso.
Apprezzabile infine l’invito della delega a prevedere che l’effetto esdebitatorio dell’accordo si estenda al socio illimitatamente responsabile, come oggi l’articolo 184, comma 2, della legge Fallimentare prevede per il concordato preventivo.
L’immagine che se ne trae è quello di un accordo di ristrutturazione destinato a operare soprattutto all’esito virtuoso dell’attivazione tempestiva di una procedura di allerta, quale strumento preordinato a convenzionare gli accordi maturati con i creditori.
Anche privati, artigiani, commercianti, piccoli imprenditori, imprenditori agricoli e tutti i soggetti non fallibili, possono rinegoziare i propri debiti
A Milano il primo organismo di composizione della crisi da sovraindebitamento, costituito dall’Ordine degli avvocati di Milano.
I soggetti interessati
Gli organismi di composizione della crisi da eccessivo indebitamento sono stati introdotti per la prima volta in Italia dalla legge 3/2012; la procedura di sovraindebitamento è uno strumento nato per risolvere su basi negoziali le situazioni di insolvenza di quei soggetti che non possono accedere alle procedure previste dalla legge fallimentare e che per eventi non prevedibili si trovano a essere troppo indebitati.
Artigiani, commercianti, privati cittadini e tutti coloro che fino a ieri erano “troppo piccoli” per fallire ora, se si trovano ad avere un eccesso di debiti, per esempio con le banche o con il fisco, possono rivolgersi al Tribunale attraverso un organismo di composizione della crisi, e proporre ai creditori un accordo di ristrutturazione dei debiti con un piano di rientro che cadenzi secondo le reali possibilità del soggetti, la restituzione almeno di una parte del dovuto.
E' il cosiddetto “concordato dei piccoli”. In cambio della sospensione dell’“aggressione” da parte dei creditori, il debitore deve mettere a disposizione il (sia pur piccolo) patrimonio personale e dichiarare i suoi debiti al professionista-gestore della sua crisi, dimostrando sincerità e spirito di collaborazione.
Si segnala, altresì, lo sportello di orientamento legale per le vittime di racket e usura e i casi di morosità non colpevole degli inquilini segnalati da Comune e Prefettura.
Impedire al debitore di presentare offerte che non riflettano il valore reale dei suoi beni, incentivare il creditore ad attivarsi piuttosto che subire passivamente le sorti della procedura concorsuale, aumentare il mercato dei crediti non performing permettendo anche ai creditori di presentare una proposta concorrente, sono gli obiettivi di una delle maggiori novità introdotte dal Dl 83/2015, convertito nella legge n. 132/2015, e ripreso dal disegno di legge delega recentemente approvato dal Consiglio dei ministri. Il legislatore ha introdotto modifiche di forte impatto sull’istituto del concordato preventivo.
La sentenza della Cassazione in commento fa luce su una meateria sulla quale non vi erano finora pronunce della giurisprudenza e afferma che nelle società di persone non vi è alcun obbligo di ripianamento delle perdite conseguite dalla società; vi è unicamente l’onere di coprirle se si vogliano distribuire gli utili, in quanto nell’articolo 2303 del Codice civile è sancito il divieto di distribuzione di utili se vi siano perdite e fino a che il capitale non sia integralmente reintegrato oppure ridotto in misura corrispondente alle perdite maturate.
Si poneva finio ad oggi il tema se, in caso di perdite, nella società di persone si dovesse far luogo al loro ripianamento, come è imposto, dagli articoli 2446 e 2447 cc, per le società di capitali.
La risposta della Cassazione è che nelle società di persone non è obbligatorio far luogo al ripianamento delle perdite, sulla base della ratio che, nelle società personali, i creditori non trovano la loro tutela nel capitale sociale (come invece avviene nelle società di capitali) ma nella responsabilità solidale e illimitata dei soci per le obbligazioni facenti capo alla società. Nelle società di persone, infatti, il capitale sociale (che può anche non sussistere: si pensi al caso della società partecipata solamente da “soci d’opera”), e cioè la sommatoria del valore dei conferimenti effettuati dai soci, serve solamente per determinare le quote di ripartizione degli utili tra i soci (e del patrimonio sociale, in caso di liquidazione della società) e per rappresentare un limite alla distribuzione di detti utili, i quali infatti possono essere suddivisi tra i soci solo se non vi siano perdite che intacchino il capitale stesso. Dal fatto che la legge non detta un obbligo di ripianamento delle perdite nelle società di persone (ma solo un onere di ripianamento ove si voglia comunque procedere alla distribuzione di utili), deriva che, in caso di società in accomandita semplice (che è la fattispecie venuta al giudizio della Cassazione nella sentenza n. 23 del 2017), i soci accomandanti (quelli cioè a responsabilità limitata) non possono pretendere dai soci accomandatari (quelli a responsabilità illimitata) che questi ultimi provvedano, con il loro patrimonio personale, a ripianare le perdite: pertanto, dato che non vi è un obbligo di ripianamento delle perdite nelle società di persone, la copertura delle perdite viene di fatto a “gravare” su tutti i soci, poiché esse devono essere ripianate (non con nuovi apporti dei soci illimitatamente responsabili, ma) con gli utili che la società consegua dopo che le perdite si siano formate.
Articolo di Angelo Busani ed Elisabetta Smaniotto tratto da Il quotidiano del diritto di Angelo Busani ed Elisabetta Smaniotto - 5 APRILE 2017
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SEGREGAZIONE, "segregare un patrimonio" significa renderlo insensibile alle legittime pretese dei creditori tanto del soggetto che ne è titolare, e intende destinarlo, quanto dei soggetti destinatari del medesimo.
Il patrimonio segregato, infatti, è esclusivamente funzionalizzato alla destinazione che gli è stata impressa, dal disponente o dalla legge, e risponde esclusivamente delle obbligazioni contratte in ragione del perseguimento dello scopo per cui quel patrimonio è stato destinato.
PROGRAMMAZIONE, "programmare un patrimonio" significa sottoporlo a regole e precetti che, in maniera automatica, si attivano al verificarsi di determinati eventi.
Il patrimonio è correttamente programmato quando la destinazione che il disponente ha voluto imprimergli si realizza mediante una struttura che contempla, astrattamente, ogni possibile circostanza a cui il patrimonio medesimo deve fare fronte, e ne disciplina le sue modalità di reazione proprio in funzione dello scopo che questo deve realizzare. Se costruisce così, una organizzazione dinamica del patrimonio.
Le operazioni da compiere
La disciplina del patto di famiglia prevede una pluralità di operazioni per realizzare lo scopo della trasmissione generazionale dell’azienda di famiglia:
a) il trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni al capitale sociale da parte dell’imprenditore ad alcuno dei suoi discendenti;
b) la liquidazione degli altri familiari non continuatori dell’impresa di famiglia da parte dell’imprenditore che dona l’azienda oppure da parte dei discendenti che hanno conseguito l’attribuzione dell’azienda.
Perchè dunque si abbia un “patto di famiglia” nel senso voluto dalla normativa, occorre che:
* il disponente sia titolare di una attività d’impresa individuale o di un pacchetto di partecipazioni societarie;
* il beneficiario o i beneficiari dell’attribuzione dell’azienda o delle partecipazioni siano soggetti qualificabili come “discendenti” del disponente (e che quindi si tratti dei suoi figli - nella nuova, omnicomprensiva accezione post riforma del 2013 - oppure dei suoi nipoti e cioè dei figli dei suoi figli); altri famigliari, quali ad esempio i genitori, il coniuge e i fratelli del disponente non sono pertanto soggetti ritenuti dalla legge idonei alla stipula del patto di famiglia;
* al patto partecipino coloro che sarebbero qualificabili come legittimari del disponente se egli morisse nello stesso momento in cui il patto di famiglia viene stipulato: si tratta del coniuge, dei suoi figli (e, in caso di loro premorienza, dei discendenti ulteriori) e degli ascendenti, cioè i genitori se mancano i figli; il patto di famiglia quindi non coinvolge i fratelli dell’imprenditore, il suo convivente, e nemmeno zii, cugini e altri parenti.
La disciplina del patto di famiglia cerca infatti di realizzare lo scopo di favorire il passaggio generazionale delle aziende familiari con il minor sacrificio possibile dei familiari non partecipi dell’attività aziendale; pertanto, essa è caratterizzata dalla ricerca del trattamento meno sperequativo possibile tra il familiare destinatario dell’azienda e gli altri suoi parenti.
La legge dunque prevede che l’attribuzione dell’azienda sia “compensata” con un’attribuzione in denaro o in natura a favore di coloro che sarebbero i legittimari dell’imprenditore (a meno che, ovviamente, costoro non vi rinuncino in tutto o in parte).
L’attribuzione ai familiari non beneficiari dell’azienda o delle partecipazioni può essere effettuata sia da colui che dona l’azienda sia dal discendente dell’imprenditore che beneficia dell’attribuzione dell’azienda o delle partecipazioni: limitare a questo ultimi il compito di effettuare questa compensazione sarebbe una soluzione praticamente irrealizzabile nella maggior parte dei casi; invero, di regola, l’età dei beneficiari dell’attribuzione dell’azienda o delle partecipazioni è piuttosto giovane e il loro personale patrimonio è tendenzialmente privo delle risorse sufficienti per far fronte alle esigenze di “compensazione” dei familiari non beneficiari dell’ attribuzione dell’azienda o delle partecipazioni; infine, il valore dell’azienda è spesso assai elevato e una “compensazione” che soddisfi le esigenze dei familiari non beneficiari richiede la disponibilità di una somma di notevole entità, che spesso nemmeno vi è nel patrimonio dell’imprenditore donante (e tanto meno la si ritrova nel patrimonio del discendente donatario).
Si tratta spesso quindi di reperire le risorse per consentire la stipulazione del patto di famiglia e quindi per permettere la soddisfazione anche dei familiari non imprenditori. La necessità è pertanto quella di finanziare il discendente dell’imprenditore, beneficiario del trasferimento dell’ azienda: ora, o si ipotizza che costui monetizzi qualche cespite aziendale (o personale) e, con il ricavato da questo “spezzatino”, liquidi il dovuto ai familiari non imprenditori; o si ricorre al sistema bancario, ambito ove entra in campo il tema delle garanzie da concedere per ottenere credito.
La soluzione più facile è quella di offrire ipoteca su beni personali o aziendali oppure di concedere il pegno sulle partecipazioni al capitale sociale dell’impresa di famiglia. Ma si possono ipotizzare anche soluzioni più complesse utilizzando il classico schema delle operazioni di leveraged buy out, e quindi:
a) costituzione di una nuova società (la cosiddetta newco) che viene indebitata mediante la concessione di un finanziamento bancario;
b) l’acquisto da parte di newco del capitale sociale della società-bersaglio (la cosiddetta target, e cioè l’azienda di famiglia) utilizzando, quale prezzo (da corrispondere al discendente donatario delle partecipazioni), il ricavo dell’erogazione del finanziamento bancario;
c) la concessione in pegno, dalla newco alla banca, delle partecipazioni nella target;
d) la fusione di target in newco, di modo che il flusso finanziario necessario a pagare le rate del mutuo provengano dalla stessa attività di target.
Con il prezzo così percepito per la vendita delle sue partecipazioni, il discendente donatario può alfine soddisfare le pretese economiche degli altri legittimari dell’imprenditore donante.
http://www.notaio-busani.it/it-IT/patto-famiglia-operazioni.aspx - Notaio Angelo Busani
Per l'omessa vigilanza da parte dei sindaci, la misura del danno risarcibile è parametrata agli interessi passivi.
Cassazione del 14 ottobre 2013, n. 23233
La sentenza della Cassazione del 14 ottobre 2013, n. 23233 ha riconosciuto la responsabilità civile dei sindaci che, con il loro comportamento omissivo di fatto hanno contribuito a "peggiorare" l'esposizione debitoria della società poi dichiarata fallita. Ciò in quanto, a causa della loro omessa vigilanza, avevano di fatto consentito il protrarsi della società, a scapito però del pagamento degli interessi passivi applicati sugli ingenti debiti contratti.
Si tratta, nel caso di specie, di una responsabilità che discende dall'inadempimento dei generali doveri di vigilanza degli obblighi legali e statutari posti dal codice civile a carico del collegio sindacale. Nello specifico i sindaci non erano intervenuti nei confronti dell’amministratore che:
a) aveva omesso di convocare l'assemblea per i provvedimenti di cui agli artt. 2446 e 2447, Codice civile in presenza di perdite di significativo rilievo e risultanti dal bilancio approvato tardivamente senza giustificato motivo;
b) aveva occultato dolosamente perdite ben più gravi di quelle esposte in bilancio riportando ingenti crediti al loro valore nominale, malgrado ricorressero ragioni per una loro prudenziale riduzione, ed iscrivendo il valore di alcune partecipazioni al prezzo di acquisto senza tenere conto delle variazioni di valore intervenute.
Già in primo grado il tribunale aveva condannato i sindaci non attribuendo loro la causa dell'intero dissesto della società, ma soltanto la responsabilità per l'aggravamento dell'esposizione debitoria conseguito al ritardo nella dichiarazione di fallimento e determinato in misura pari agli interessi per un biennio sulle esposizioni bancarie e sulle altre esposizioni, quasi tutte verso imprenditori commerciali. Successivamente la Corte di Appello aveva riformato parzialmente la sentenza, riducendo la quantificazione dei danni, osservando che i sindaci:
a) rispondono dei pregiudizi arrecati al patrimonio della società che siano conseguenza diretta ed immediata delle condotte illecite degli amministratori, quando essi non abbiano ottemperato ai doveri di vigilanza inerenti alla loro carica e ricorra un nesso di causalità tra tali inosservanze e il danno;
b) i sindaci, in grado di percepire il dissesto già dell'esercizio in cui le perdite si sono manifestate anche in considerazione dell'analogo ruolo ricoperto dalle società collegate, avevano mancato ai loro doveri di vigilanza e non avevano azionato i poteri sostitutivi con ricorso al tribunale, ai sensi degli artt. 2446-2450, c.c. e con esposto al p.m. per sollecitare una richiesta di provvedimenti ex art. 2409, c.c.; in tal modo essi avevano aggravato il dissesto protraendo il tempo di maturazione degli interessi sugli ingenti debiti della società.
Il danno, in tale secondo grado, era stato riconosciuto liquidabile in via equitativa in considerazione della notevole difficoltà dei conteggi da operarsi sulle singole voci dei crediti ammessi al passivo e della difficoltà di reperimento della necessaria documentazione contabile. Il danno andava determinato a partire dall'inizio dell'esercizio successivo a quello del bilancio in cui era divenuta possibile la rappresentazione del patrimonio ed aveva avuto inizio la condotta omissiva, fino alla dichiarazione di fallimento.
La Corte di Cassazione, nella sentenza in commento*, ha quindi confermato la decisione di appello sottolineando in particolare che il nesso di causalità è stato rilevato nella mancata formulazione da parte dei sindaci dei rilievi critici su poste di bilancio palesemente ingiustificate ed il mancato esercizio dei poteri sostitutivi che avrebbe condotto ad una più sollecita dichiarazione di fallimento. La pronuncia in esame, oltre ai principi in essa contenuti, mette in luce il ruolo dei sindaci nella crisi di impresa. Va subito detto che il nostro legislatore non ha previsto dei doveri specifici ulteriori e diversi rispetto a quelli generali che il codice civile impone ai sindaci nelle società in bonis. Pertanto, ne consegue che i doveri generali trovano nella crisi di impresa una loro declinazione automatica e se possibile più puntuale essendo più alto il rischio di incorrere in una azione di responsabilità.
RESPONSABILITA' del COLLEGIO SINDACALE
Il collegio sindacale, nell'esercizio delle sue funzioni potrà essere passibile di una responsabilità verso la società, i terzi e i soci. A ciò si aggiunga che l'organo di controllo è altresì soggetto a una responsabilità penale. In primis quindi i sindaci sono soggetti alla responsabilità (cd. esclusiva) civile prevista dall'art. 2407, co. 1, c.c., e per non incorrervi dovranno dare esecuzione al mandato ricevuto con la professionalità e la diligenza richieste dalla natura dell'incarico; sono altresì responsabili della verità delle loro attestazioni e devono conservare il segreto sui fatti e sui documenti di cui hanno conoscenza per ragione del loro ufficio. Tale obbligo di segretezza consegue ai poteri di ispezione e d'informazione (ex art. 2403-bis, co. 1 e 2, c.c.) attribuiti al collegio. Inoltre è previsto che la responsabilità si estenda anche ai fatti e alle omissioni degli amministratori (in tale evenienza si parla di "responsabilità concorrente") se tali fatti o omissioni hanno generato un danno che avrebbe potuto essere evitato se (i sindaci) avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro carica (come nel caso della sentenza commentata nella prima parte dell'intervento). Un'ulteriore responsabilità posta a carico dei sindaci è quella penale nelle specifiche ipotesi di false comunicazioni sociali, false comunicazioni sociali in danno della società, dei soci o dei creditori, e impedito controllo (artt. 2621, 2622 e 2625, c.c.).
*Tratto da "Società e bilancio" de Il Sole 24 Ore - Edizione del 12 dicembre 2013, n. 12 pag. 16
Azione sociale di responsabilità e onere probatorio. Presupposti della responsabilità del liquidatore di s.r.l.
Tribunale di Milano 29 dicembre 2015 - Sentenza 14818/2015
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"Quando si tratta di edifici o di altre cose immobili destinate per loro natura a lunga durata, se, nel corso di dieci anni dal compimento, l'opera, per vizio del suolo o per difetto della costruzione, rovina in tutto o in parte, ovvero presenta evidente pericolo di rovina o gravi difetti, l'appaltatore è responsabile nei confronti del committente e dei suoi aventi causa, purché sia fatta la denunzia entro un anno dalla scoperta.
Il diritto del committente si prescrive in un anno dalla denunzia".
Tale norma, che unitamente all'art. 1667 c.c. disciplina le ipotesi di responsabilità dell'appaltatore, ha creato nella giurisprudenza di merito e di legittimità vari dubbi interpretativi, di volta in volta risolti dall'intervento delle Sezioni Unite (si veda ad esempio il dibattito sulla natura della responsabilità dell'appaltatore, da ultimo ricondotta nell'alveo dell'art. 2043 c.c. dalla sentenza SSUU n. 2284 del 03.02.2014).
Recentemente, in particolare, il contrasto ha visto da un lato chi limitava l'applicabilità della disposizione in esame alla sola ipotesi della costruzione ex novo degli edifici e, dall'altro, chi invece ne estendeva l'operatività anche all'ipotesi della ristrutturazione degli immobili.
Secondo un primo orientamento, infatti, l'operatività dell'art. 1669 c.c. dovrebbe essere circoscritta alla sola ipotesi di costruzione ex novo.
In tal senso ha disposto la sentenza n. 24143/07, la quale, con riferimento ad un caso di opere d'impermeabilizzazione e pavimentazione del terrazzo condominiale d'un edificio preesistente, ha osservato che l'art. 1669 c.c. delimita con una certa evidenza il suo ambito di applicazione alle opere aventi ad oggetto la sola costruzione di edifici o di altri beni immobili di lunga durata.
Non sarebbero incluse, perciò, le modificazioni o le riparazioni apportate ad un edificio o ad altre preesistenti cose immobili, da identificare a norma dell'art. 812 c.c..
A tale conclusione, la Cassazione è in un primo momento pervenuta attraverso l'interpretazione letterale della norma, laddove questa "...raccorda il termine 'opera' a quello di 'edifici o di altre cose immobili, destinate per loro natura a lunga durata', per poi connettere e disciplinare le conseguenze dei vizi costruttivi della medesima opera, così significando che la costruzione di un edificio o di altra cosa immobile, destinata per sua natura a lunga durata, costituisce presupposto e limite di applicazione della responsabilità prevista in capo all'appaltatore".
In senso puramente adesivo ha statuito, poi, la sentenza n. 10658/15 (massimata in maniera del tutto conforme), avente ad oggetto lavori di consolidamento di una villetta preesistente che avevano provocato gravi fessurazioni su di un corpo di fabbrica aggiuntovi.
Di segno opposto è stata, invece, la più recente sentenza n. 22553/15, secondo cui risponde ai sensi dell'art. 1669 c.c. anche l'autore di opere realizzate su di un edificio preesistente, allorché queste incidano sugli elementi essenziali dell'immobile o su elementi secondari rilevanti per la funzionalità globale.
Secondo tale orientamento, invero, "...l'opera cui allude la norma, quindi, non si identificherebbe necessariamente con l'edificio o con la cosa immobile destinata a lunga durata, ma ben potrebbe estendersi a qualsiasi intervento, modificativo o riparativo, eseguito successivamente all'originaria costruzione dell'edificio, con la conseguenza che anche il termine di compimento, ai fini della delimitazione temporale decennale della responsabilità, ha ad oggetto non già l'edificio in sé considerato, bensì l'opera, eventualmente realizzata successivamente alla costruzione dell'edificio".
Trattandosi di interpretazioni diametralmente opposte, con ordinanza n. 12041 del 10.06.2016 la terza sezione civile della Corte di Cassazione ha rimesso al Primo Presidente la questione, chiedendo l'intervento chiarificatore delle Sezioni Unite, in seguito pronunciatesi con la recente sentenza n. 7756 del 27.03.2017.
Le Sezioni Unite, dapprima, esemplificano alcune delle ipotesi rientranti nell'alveo dei gravi difetti di cui all'art. 1669 c.c., richiamando ad esempio "...la pavimentazione interna ed esterna di una rampa di scala e di un muro di recinzione (sentenza n. 2238/12); opere di pavimentazione e di impiantistica (n. 1608/00); infiltrazioni d'acqua, umidità nelle murature e in generale problemi rilevanti d'impermeabilizzazione (nn. 84/13, 21351/05, 117/00, 4692/99, 2260/98, 2775/97, 3301/96, 10218/94, 13112/92, 9081/92, 9082/91, 2431/86, 1427/84, 6741/83, 2858/83, 3971/81, 3482/81, 6298/80, 4356/80, 206/79, 2321/77, 1606/76 e 1622/72); un ascensore panoramico esterno ad un edificio (n. 20307/11); l'inefficienza di un impianto idrico (n. 3752/07); l'inadeguatezza recettiva d'una fossa biologica (n. 13106/95); l'impianto centralizzato di riscaldamento (nn. 5002/94, 7924/92, 5252/86 e 2763/84); il crollo o il disfacimento degli intonaci esterni dell'edificio (nn. 6585/86, 4369/82 e 3002/81, 1426/76); il collegamento diretto degli scarichi di acque bianche e dei pluviali discendenti con la condotta fognaria (n. 5147/87); infiltrazioni di acque luride (n. 2070/78)".
Ciò premesso, la sentenza - una volta ricomposta la storia e l'esegesi della norma, derivante addirittura dal codice napoleonico - sostiene che riferire l'opera alla "costruzione" e questa a un nuovo fabbricato, inteso quale presupposto e limite della responsabilità aggravata dell'appaltatore (come ritiene Cass. n. 24143/07), non sembra possibile proprio dal punto di vista letterale.
A tal riguardo, la pronuncia chiarisce che "...nel testo della norma il sostantivo 'costruzione' rappresenta un nomen actionis, nel senso che sta per 'attività costruttiva'; e non potrebbe essere altrimenti, visto che se esso valesse (come mostra d'intendere la sentenza appena citata) quale specificazione riduttiva del soggetto (l'opera) della (terza, nel testo vigente) proposizione subordinata, si avrebbe una duplicazione di concetti ad un tempo inutile e fuorviante. Inoltre, il supposto impiego sinonimico di 'costruzione' quale nuovo edificio, porterebbe a intendere la norma come se affermasse che l'opera può rovinare per difetto suo proprio".
Secondo le Sezioni Unite, insomma:
"nell'economia del ragionamento giuridico sotteso ai casi sopra menzionati, che fa leva sulla compromissione del godimento dell'immobile secondo la sua propria destinazione, è del tutto indifferente che i gravi difetti riguardino una costruzione interamente nuova. La circostanza che le singole fattispecie siano derivate o non dall'edificazione primigenia di un fabbricato non muta i termini logico-giuridici dell'operazione ermeneutica compiuta in ormai quasi mezzo secolo di giurisprudenza, perchè non preordinata al (nè dipendente dal) rispetto dell'una o dell'altra opzione esegetica in esame. Spostando l'attenzione sulle componenti non strutturali del risultato costruttivo e sull'incidenza che queste possono avere sul complessivo godimento del bene, la giurisprudenza ha mostrato di porsi dall'angolo visuale degli elementi secondari ed accessori. Questo non implica di necessità propria che si tratti della prima realizzazione dell'immobile, essendo ben possibile che l'opus oggetto dell'appalto consista e si esaurisca in questi stessi e soli elementi. Ferma tale angolazione, a fortiori deve ritenersi che ove l'opera appaltata consista in un intervento di più ampio respiro edilizio (come, appunto, una ristrutturazione), quantunque non in una nuova costruzione, l'art. 1669 c.c., sia ugualmente applicabile".
Analizzati e confutati i residuali elementi a supporto dell'orientamento più restrittivo, le Sezioni Unite, privilegiando l'interpretazione estensiva della norma, enunciano il seguente principio di diritto:
"l'art. 1669 c.c., è applicabile, ricorrendone tutte le altre condizioni, anche alle opere di ristrutturazione edilizia e, in genere, agli interventi manutentivi o modificativi di lunga durata su immobili preesistenti, che (rovinino o) presentino (evidente pericolo di rovina o) gravi difetti incidenti sul godimento e sulla normale utilizzazione del bene, secondo la destinazione propria di quest'ultimo".
Cassazione Sez. Un. n. 7756 del 27.03.2017
Fonte: commento alla sentenza delle Sezioni Unite n. 7756 del 27.03.20 tratto da www.StudioCataldi.it